06/02/08

Alitalia: un prezzo troppo elevato. Per il paese!

Vi posto un contributo tratto dal sito lavoce.info sulla vicenda Alitalia purtroppo un altro capitolo delle solite tragedie Italiane!!
di Carlo Scarpa 03.07.2007


Per vendere Alitalia si rischia che a pagare siano ancora una volta i contribuenti. Per "salvare" i privilegi di qualche migliaio di lavoratori, spesso assunti per ragioni clientelari e pagati stipendi fuori mercato. E se a comprare sarà AirOne, rischiano di pagare anche i consumatori, che vedranno scomparire la concorrenza tra Linate e Fiumicino. Un ulteriore costo sarà poi la perdita di reputazione dell'Autorità antitrust, nel caso decida di non intervenire. Sembra un gioco a somma molto negativa.

In questo periodo, mantenere il silenzio sulla vicenda di Alitalia mi è sembrato doveroso, per il rispetto che si deve a un malato terminale.

In questi ultimi mesi sono poi usciti i conti di Alitalia del 2006, con una perdita doppia a quanto previsto (il cda ha ritenuto, forse inevitabilmente, anche di svalutare la flotta): in sostanza, nel 2006 Alitalia ha perso poco meno di 2 milioni di euro al giorno. E non deve andare tanto meglio ora, se i giornali ci informano che ormai pure la normale manutenzione della flotta è divenuta problematica. Poiché il malato sembra avere perso conoscenza, forse il riserbo è ormai superfluo…

Doppia delusione

Neppure i russi se la sentono di acquisire un’impresa in questo stato e l’asta volge lentamente al termine con un sostanziale fallimento. Peccato. Nei mesi scorsi, il governo ci ha detto (correttamente) che la situazione della finanza pubblica era grave, e ha quindi deciso tagli di spesa e aumenti di imposte. Anche in una situazione definita in modo così drammatico, l’unico tentativo di vendere qualcosa era quello legato ad Alitalia. E la conclusione che si profila aggiunge delusione a delusione.

L’unica offerta che resta sul tavolo è quella dell’unica concorrente di Alitalia sulla sua tratta più redditizia (Linate – Fiumicino), che oltre tutto ha già annunciato alcune migliaia di licenziamenti. Possibile? In Italia, sì, ma solo se il governo (come ha prontamente annunciato) si farà carico di questi “esuberi”.

… non pagherebbe solo AirOne

In altri termini, per salvare Alitalia non bastano i quattrini di AirOne. Servono anche più quattrini dai clienti e dai contribuenti.

I primi, sulla tratta Milano-Roma vedranno terminare la concorrenza e certo non avranno condizioni più vantaggiose. Il tutto, ammesso che l’Autorità antitrust consenta la cosa, il che come è noto è tutto da dimostrare.

Ma servono altri quattrini anche dai contribuenti, perché i sussidi non finiscono mai, come gli esami di Eduardo. Per anni i contribuenti hanno pagato per le politiche scellerate di chi gestiva questa compagnia più volte salvata dallo Stato, e hanno dovuto tollerare che si pagassero stipendi fuori mercato a un numero di dipendenti inutile (se non per i politici di turno, che su queste politiche di assunzione hanno costruito le loro fortune). Ma questo non basta: i contribuenti dovranno pagare ancora, per far sì che lavoratori impiegati per un lavoro non utile e/o sovrapagato non debbano patire troppo la fine dei loro privilegi.

Ammesso, naturalmente, che i sindacati accettino i licenziamenti, cosa che in Italia, soprattutto con questo governo (ma non solo) e con questo ministro dei Trasporti, pare essere condicio sine qua non. Ma ricordiamo che il precedente governo di centrodestra non aveva neppure osato mettere mano al problema.

E non dimentichiamo un particolare: quando sarà noto nei dettagli il piano industriale, scopriremo cosa succederà a Fiumicino e a Malpensa: aspettiamoci pure nuove sorprese.

Non basta l’asta…

Quando è stata annunciata la vendita di Alitalia con una procedura d’asta, qualcuno aveva forse sperato che questo bastasse a ottenere un prezzo elevato per la compagnia. Era ovviamente un’illusione.

In primo luogo, procedure di asta di tipo beauty contest sono penalizzanti. Si ricordi che il governo ha infatti scelto di non vendere necessariamente al miglior offerente, ma all’offerta “complessivamente migliore” secondo il giudizio insindacabile di chi vende. Vi erano vincoli (copertura del territorio nazionale, mantenimento della riconoscibilità nazionale del marchio), si è dichiarato che i riflessi occupazionali avrebbero avuto un ruolo importante nel valutare le offerte, ma nulla di più preciso, almeno ufficialmente. Tanto che grandi investitori internazionali, anche molto esperti nel settore, si sono ritirati.

Ma in ogni caso, attenzione: un’asta, anche quella disegnata nel migliore dei modi, non serve a estorcere prezzi irragionevoli a chi compra. Serve a rivelare quanto vale un oggetto. E quale si pensava che fosse il valore di un’impresa che perde due milioni di euro al giorno?

Evidentemente, il prezzo chiesto dal governo non consente di vendere Alitalia “così come è”. Per spingere un investitore ad acquistare, bisogna in qualche modo consentirgli di liberarsi delle inefficienze, e ciò sembra richiedere l’intervento a favore dei lavoratori in eccesso. Ma anche questo non è bastato a investitori “diversi da AirOne”. Solo chi possa aggiungere al resto il vantaggio (presunto) legato alle extra-rendite sulla Milano-Roma può fare l’operazione. E infatti tutti gli altri si sono ritirati.

Rispettiamo l’Antitrust

Ma non è finita. Se, come si spera, l’Antitrust non consentirà che si spremano i consumatori, probabilmente anche AirOne si ritirerà, salvo ulteriori sconti (pesanti) sul prezzo di acquisto. E se invece l’Antitrust si piegasse alle ragioni del venditore (non raccontiamoci che ci sono ragioni “sociali” che richiedono l’operazione, per favore), una delle ultime istituzioni serie si esporrebbe a una figuraccia epocale.

Anche questo sarebbe un costo pesante. Se il cane da guardia della concorrenza si mostra timido e pronto a compromessi, le numerose lobby e i monopoli rialzeranno (giustamente) la testa. Vale la pena di pagare tutto questo per salvare Alitalia?

Se la CGIL difende i blocchi stradali

di PIETRO ICHINO

Nell'aprile scorso il nostro governo, in attuazione del principio costituzionale di pari trattamento per tutte le religioni, ha firmato sei nuove intese con altrettante comunità di culto italiane, tra le quali l'Unione buddista e l'Unione induista, in aggiunta a quelle stipulate in passato con altre comunità, come quella israelitica o la valdese. Ma nessuna di queste nuove intese è ancora potuta entrare in vigore, perché la necessaria legge di ratifica richiede una copertura finanziaria, per via delle esenzioni fiscali sulle donazioni dei fedeli. Pochissima cosa, s'intende: il minor gettito è stimato in poche centinaia di migliaia di euro. Ma il rigore innanzitutto! Anche i principi costituzionali e gli impegni assunti dal governo per attuarli devono mettersi in lista di attesa.

Nel dicembre scorso alcune associazioni che rappresentavano una minoranza degli autotrasportatori italiani hanno proclamato uno sciopero per rivendicare alcuni benefici fiscali a favore della categoria. Se si fosse trattato soltanto di uno sciopero di quei camionisti, il Paese ne avrebbe subito un certo disagio, ma l'altra metà dei Tir avrebbe continuato a circolare insieme al resto del traffico su strada. Invece due o tre centinaia degli scioperanti, con qualche decina di blocchi autostradali ben piazzati, sono riusciti a paralizzare di colpo l'intero Paese. Per evitare danni colossali, il governo ha trovato subito 30 milioni da destinare alla categoria con la finanziaria (cui se ne aggiungono altri 40 promessi per il prossimo biennio), sottraendoli a un fondo destinato alla ricerca scientifica.

Così vanno le cose nell’Italia di oggi: il blocco stradale è diventato il mezzo ordinario con il quale gli interessi di un gruppo possono imporsi sul bene comune. Ma un Paese che funziona in questo modo si condanna al collasso: è proprio con i blocchi stradali e ferroviari che, in Campania, viene sistematicamente impedita (anche in questi giorni!) l'attivazione di inceneritori e discariche. Poiché il comprensorio A in quel modo è riuscito a evitarla, questo ha legittimato a servirsi della stessa arma il comune B, poi la località C, e così via; finché l'intera regione è rimasta sepolta dall'immondizia. Dalla Campania viene un monito terribile per l'intero Paese.

Per questo siamo rimasti di sasso leggendo l'articolo di fondo dell'ultimo numero dell'organo ufficiale della Cgil, che strapazza il presidente della Regione Friuli Riccardo Illy per avere egli sollecitato la denuncia dei responsabili di alcuni blocchi stradali attuati nel dicembre scorso da gruppi di lavoratori metalmeccanici in lotta per il rinnovo del loro contratto nazionale: «nessuna amministrazione regionale o locale era mai arrivata a tanto», tuona dalla prima pagina di Rassegna sindacale il segretario friulano della Cgil, «neppure tra quelle rette dal centrodestra». Appunto. E ne vediamo le conseguenze.

I sindacalisti che la pensano così non si accorgono che un accordo raggiunto in questo modo è sempre un accordo in qualche misura sbagliato: nasconde un meccanismo che non funziona, consentendo di eludere il problema. Ma alla fine il risultato rischia di essere rovinoso per tutti.

05 febbraio 2008